Al Tègi e i Tiger dè Mònt

Gruppo Culturale Rontagnanese.

Fin dall'età della pietra l'uomo ha avuto l'accortezza di cuocere alcuni tipi di cibi prima di mangiarli, giudicandoli, forse, più appetibili dei rispettivi non cotti.

Gli arnesi per l'operazione di cottura, con l'ausilio del fuoco, in un primo tempo dovevano essere alquanto primitivi e rudimentali.

«Si mischiano terriccio e polvere, ottenuta con sasso marmorizzato nell'acqua entro una buca, riducendoli alla consistenza di una malta, questa la si mette sopra un frullo che poggia su un pernio fatto con un bastone a due punte di cui una viene conficcata nel terreno e l'altra viene incuneata nell'apparecchio stesso.

La malta viene appianata sul piattello con le mani, poi girando coi piedi nudi il frullo si ottiene l'utensile!!.… »

Sembra la descrizione del lavoro di un uomo primitivo intento a procurarsi un utensile che gli permetterà di cuocere una sorte di pane primitivo fatto da una mistura di acqua e farina, ma non è che la descrizione che 60 anni fa faceva il Soglianese Pio Macrelli riferendosi al lavoro svolto dai teggiai di Montetiffi.

Ancora oggi in alcune zone interne dei Pakistan esiste una popolazione che usa una sorte di tale metodo per cuocere un impasto di alcuni cereali.

Così dopo aver riscaldato preventivamente alcune lastre di pietra queste si mettono sovrapposte a delle «spianate» fatte appunto con farina di cereali e acqua e lasciate per un certo periodo di tempo avvolte fra gli stracci ottenendo il pane.

Anche in alcune regioni più interne dell'Africa gli abitanti indigeni riscaldano un impiastro su lastre di pietra messe sopra il fuoco con la differenza che stavolta, la golosa leccornia, è formata da corpi di farfalla a cui sono state preventivamente strappate le ali.

Nella civiltà più moderna molte sono le vivande cotte su teglie di metallo, ma ben pochi sono i popoli ad usare ancora teglie di pietra.

In Romagna la piadina è diventata quasi un simbolo di distinzione insieme al liscio.

Molto è stato scritto sulla piadina e sulla importanza nell'alimentazione delle popolazioni contadine della Romagna.

Viceversa, tranne alcune eccezioni, pochissimo è stato scritto sulla tecnica e sulla storia sommaria dei mestiere di tegliaio che è limitato ad una piccola località ove fin dall'epoca più antica si fabbricano le teglie, owero Montetiffi.

Sono secoli infatti che i teggiai di Montetiffi «creano» le teglie, ma purtroppo questi umili artisti della nostra civiltà contadina non ci hanno lasciato memorie.

Essi non costruirono monumenti famosi nè crearono capolavori d'arte, ma anche la teglia per la nostra civiltà contadina è e rimarrà sempre un «grosso monumento».

Le origini delle teglie e dei tegliai rimangono a noi oscure come oscuri rimangono quei secoli così a noi lontani.

Grossa è l'analogia fra le nostre teglie e certi «cocci romani» conservati nel museo archeologico di Sarsina, indice nella nostra zona di artigiani teggiai almeno sin da quell'epoca.

D'altra parte anche agli stessi romani la «piada» non era sconosciuta, tanto che soprattutto in un certo periodo storico a noi vicino la piada venne considerata come «il pane della nostra missione o del nostro destino, impasto della giovane Roma tra marce di legioni e passi di triari, nel vaticinio della grandezza imperiale».

Se la piada era conosciuta fin da allora anche la teglia o «testo» doveva essere conosciuta in quei periodo storico.

La presenza di teggiai nella nostra zona potrebbe essere confermata da quei suddetti «cocci romani».

Tèsto è un antico vocabolo derivato dal latino «Testum» che significa coccio o frammento di terracotta.

In seguito verrà usato anche per indicare teglia di terracotta con il bordo basso per cuocere vivande nel forno.

Anche un semplice vaso di terracotta per contenere l'acqua veniva chiamato testo.

Da questi oggetti di vario genere ma tutti di terracotta alla classica teglia per cuocere la piadina romagnola il passo è corto.

Dalle documentazioni consultate risulta che, almeno dopo il 1860, testo o tegghia veniva usato indifferentemente, mentre ancora il vocabolo teglia non appariva.

Si suppone che «Testo» o «fabbricatori di Testi» era più un linguaggio per persone di una certa cultura (come ad esempio l'abate che ha scritto i documenti di nascita e di morte da noi consultati); mentre «tegghie» e «tegghiai» erano termini più popolari, derivante dal termine dialettale «Tègi».

Da quei tempi remoti la fabbricazione di attrezzi culinari è sempre andata evolvendosi.  Ma sembra che, per l'arte di fabbricare le teglie il tempo si sia fermato, e fino a pochi anni or sono la tecnica usata da questi artigiani sembra essere la stessa usata da millenni dagli antenati dei «tegliai».

Oggi i fabbricatori di teglie per cuocere la piadina romagnola sono rimasti solo due confinati a Montetiffi, dove da secoli vivevano i maestri tegliai.

Seppure numerosi sono nell'area feretrana i reperti archeologici medioevali che testimoniano la presenza in loco della teglia e dei tegliai non si conoscono ad oggi documenti che parlino specificatamente delle teglie di Montetiffi.

Uno dei primi documenti fino ad ora ritrovati e che si riferisca direttamente all'attività dei teggiai di Montetiffi è del 1527.

Il 2 luglio di quell'anno Sigismondo Malatesta emanò un decreto protezionistico con cui «per beneficazione dei suo stato et soi sudditi» proibì l'importazione «in la Città di Arimino overo suo Contado et distrecto» di «vaxi de terra forestieri facti fora del dominio», «eccetto li vaxi de terra d'ogni sorte vel qualità che fossino facti et conducti da Montetiffi, vel la Puglia, li quali liberamente si possono vendere».

E l'eccezione di Montetiffi è dovuta al fatto che ivi si fabbricassero certi «vaxi» che non venivano prodotti in quel luogo, per i quali occorreva quell'arte e quella «terra» che solamente in quei posti era conosciuta.

Già dal XVI secolo quindi i teggiai di Montetiffi si recavano «alla bassa» per smerciare i loro prodotti come lo dimostrano anche altri documenti «f iscali».

Così nel 1579 mentre «... vasi de terra, taglieri, laveggi, careghe, scattole... et altri simili che vengano per vendersi... in piaza (a Rimini) paghino quattrini 8 per ducato Pignatte, TESTI, orci, mortai andando per passo paghino 3 per soma, ma vendendosi nella città, non paghi cosa alcuna».

Si racconta che quando questi teggiai andavano a vendere i loro prodotti nel Riminese, essi andavano fieri di udire il suono dell'attuale campana di Montetiffi (sec.  XVII) dal ponte di Tiberio.

A Montetiffi, manco a dirlo, i teggiai godevano di una grande stima, tanto più che essi erano allora assai numerosi.

A dedicarsi a tale mestiere erano soprattutto gli abitanti dei castello, come dal rilevarsi anche dagli atti consigliari.

Così ad esempio nel consiglio leggesi «il Castello creduto per una grossa terra non contenere più di nove famiglie tutti Miserabili che si moiono di fame, e solo campano coll'arte de Testi... ».

La sopracitata descrizione non è comunque presumibilmente dei tutto veritiera, trattandosi di una supplica al Cardinale Legato di Romagna per l'esenzione al pagamento di certi gravami...

A proposito poi di gravami, questi «Artisti De' Testi» pagavano alla Comunità di Montetiffi le Imposte al pari dei possidenti, evidentemente in relazione al numero delle teglie smerciate.

Così quando il 23 marzo 1732 i consiglieri della Comunità di Montetiffi, ovvero Francesco Reali, il Maestro Andrea Pescaglia, Sebastiano Testi, Giovanni Lami, il tenente Paol'Antonio Reali, Battista Carigi e Paol'Antonio di Girolamo Reali, e Giambattista Testi, decretarono il riparto delle tasse, e dopo «maturo discorso risolvettero d'imponere il dovuto gravame sop.a q.sti ARTISTI TEGGLIARI», poi ai «lavoratori di diverse possessioni», al Comune di S. Paolo ed infine ai possidenti.

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I Tegliai di Ville di Montetiffi
La fabbricazione della Teglia

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