Piadina

da CIBO e TRADIZIONE         di Andrea Malossini

In un poemetto dei 1900, intitolato "La Piada", Giovanni Pascoli descrisse l'amore dei romagnoli per questa tradizionale focaccia.

Nelle note a versi come: "Azimo santo e povero dei mesti / agricoltori, il pane dei passaggio / tu sei, che s'accompagna all'erbe agresti", il poeta romagnolo ne racconta brevemente anche la preparazione " ... si intride senza lievito; e si cuoce in una teglia d'argilla, che si chiama testo, sopra il focolare, che si chiama aròla".

La piadina romagnola, chiamata in dialetto pié, pjida o pièda, italianizzata in piada, termini derivanti dal greco platys, attraverso il latino plattus "piatto", ha origini antichissime.

I cultori di questa gloria romagnola la fanno risalire ad Enea e precisamente al momento dei suo sbarco sulle coste italiche.

Si narra infatti che, dalla fame, gli esuli decisero di mangiare le schiacciate di farina e acqua che normalmente servivano da piatto (le antesignane della piada), dopo avere consumato i poveri frutti selvatici sulle quali erano stati posati, proprio come nella profezia dei padre Anchise, che aveva predetto che questo evento avrebbe stabilito il momento e il luogo dove edificare la nuova città.

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immagine di Bianca Maria Rizzoli

Tornando ai nostri tempi e dimenticando per un attimo le leggende, è certo che la piada ha avuto un importante ruolo nell'alimentazione povera della popolazione romagnola.

Fino all'inizio degli anni '60, prima dell'avvento dei turismo di massa, la piada, preparata con acqua, farina (spesso di granoturco), sale e un poco di strutto, era veramente un cibo povero.

Non era sostitutivo dei pane, che veniva regolarmente preparato una volta alla settimana, e non era tanto meno uno spuntino da consumare fuori pasto, farcito a mò di panino con prosciutto, salame, o altre prelibatezze come marmellate o creme al cioccolato, come i piadinari per turisti propongono.

La piada era spesso un ripiego, preparata in fretta quando il pane scarseggiava nella madia e non era ancora tempo di farne di nuovo; aveva il vantaggio di non dovere essere lievitata, nonché quello di essere cotta sull'economico testo e non nel dispendioso forno.

II companatico della piada era altrettanto misero: erbe selvatiche o verdure, cotte in padella o crude, oppure, più raramente, formaggi freschi.

Alla ricetta base, appena ricordata, col tempo vennero aggiunti degli ingredienti, molto variabili da luogo a luogo: all'inizio dei secolo si iniziò ad usare il bicarbonato, poi il lievito di birra (non sempre e in piccole quantità) e, meno frequentemente, il latte, il lardo e il miele, alimento questo che la rende più morbida, da usare nel caso non la si mangi subito.

Il segreto per una buona piada però, oltre agii ingredienti, alla forma (preferibilmente circolare) e allo spessore (3 millimetri prima della cottura e poco più dei doppio dopo) sono il modo col quale viene impastata (insostituibili le robuste braccia della brava azdora romagnola) e il testo, o teggia, la piastra sulla quale la piada viene cotta.

Il primo elemento è ora spesso sostituito dalle impastatrici automatiche, più comode e veloci, ma che rendono la pasta un po’ troppo liscia.

Il testo, una specie di tegame di terracotta, piatto e circolare, con un piccolo bordo rialzato, è invece ancora molto usato.

Già nel Medioevo era tradizione, per le massaie, aspettare in autunno i "fornacini" che, discendendo dalle montagne tosco-romagnole, vendevano i testi casa per casa, trasportandoli sulle spalle chiusi dentro gli scranel e inframmezzati da foglie di felce.

Una variante alla classica piada era il piadotto, ormai dimenticato, preparato con acqua, farina di granoturco e uva secca.

Lasciato riposare per alcuni giorni diventava durissimo, sia da mangiare che da digerire.

Più gradevole è il cassone, o crescione, una piada piegata in due nella quale venivano rinchiuse le solite erbette o, come si usava nella montagna forlivese, zucca, patate e ricotta.

Ora, sempre più scimmiottando il calzone napoletano, lo si farcisce con pomodoro, mozzarella, funghi e quant'altro la fantasia suggerisce.

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