La Romagna
di fine Ottocento
e la politicizzazione delle masse
Con
l'unità d'Italia anche la storia delle popolazioni della Romagna rurale muta
profondamente e pone le premesse per la costruzione di una nuova coscienza nelle
masse contadine, fin qui isolate, impotenti e inerti nella loro secolare
condizione di soggezione.
E
ciò spiega la fine graduale della tragica epopea del brigantaggio romagnolo,
che se pure imperversa anche dopo la morte del Passatore, viene tuttavia
perdendo l'humus socio-politico sul
quale poteva alimentarsi.
Ma
anche spiega - nella lotta politica che sta per aprirsi - il perdurare di
un'idea "romantica", ribellista, libertaria e pascoliana, del
Passatore.
I
governi sabaudi, espressione delle classi dominanti, danno avvio alla cosiddetta
politica del progresso, e cioè al
disegno, peraltro legittimo, di sviluppare anche in Italia un processo di
industrializzazione che conduca il Paese al livello degli altri Stati europei.
Il
progetto coinvolge anche le campagne, dove si favorì il formarsi dell'azienda
di grandi dimensioni a conduzione capitalistica.
Si
tratta di un processo che coinvolge anche le campagne romagnole e che dobbiamo
assumere come fondamentale per capire come, da una massa contadina inerte e
senza consapevolezza della sua condizione, si sia via via formata una
popolazione aperta alle idee repubblicane e alle suggestioni del socialismo.
La
politica del progresso colpisce
duramente le masse mezzadrili, che coi loro piccoli poderi non possono competere
con le grandi aziende agrarie italiane ed estere.
Si
ha in tal modo un doppio fenomeno: da un lato, la condizione di vita del
mezzadro che resiste sul suo piccolo podere peggiora rapidamente; dall'altro, la
vecchia famiglia patriarcale - che fin qui ha vissuto compatta nel chiuso della
sua unità poderale - si sfalda e si disgrega.
Il
podere, che non basta più a mantenere tutti, conduce i più giovani o i più
avventurosi o i più disperati a lasciare la condizione mezzadrile ed a darsi al
bracciantato. |
Innocenzio Fiorentini (il Passanti), Valentino Bignami (il Canino), Enrico Casadio (il Passottino), Giuseppe Afflitti (il Lazzarino) e Antonio Tampieri (il Paccalite) ai tempi della banda del Lazzarino, dopo la morte del Passatore. |
Si
formano così due masse ugualmente sollecitate all'opposizione: quella dei
mezzadri e soprattutto quella dei braccianti, i quali, usciti dal chiuso della
campagna si inurbano ai limiti delle borgate rurali
(borghetti) ed in quella condizione, caratterizzata da nuovi rapporti
sociali, scoprono lo straordinario valore della solidarietà di classe, la
possibilità di combattere insieme per migliorare le loro condizioni di vita,
peraltro peggiori di quelle già povere dei contadini.
I
braccianti lavorano soprattutto solo nel semestre estivo e vivono spesso in
agglomerati fatiscenti e sovraffollati, sempre stretti dalle necessità
economiche.
Si
pensi che nel 1860 una giornata lavorativa di dieci ore veniva pagata 80-100
centesimi, e cioè il valore di tre chili di pane o di 750 grammi di carne.
Che
la disgregazione della famiglia patriarcale e l'allargarsi del bracciantato
abbia questo significato rivoluzionarlo negli assetti secolari
dell'organizzazione rurale è ben documentato dalle preoccupazioni delle classi
padronali.
Nel
1880, sul «Giornale agrario italiano», pubblicato a Forlì, si può leggere
una singolare rappresentazione dei giovani che abbandonano la famiglia
patriarcale: per l'articolista si tratta di giovani indocili all'autorità
paterna, nemici della fatica e ingaglioffiti nel gioco, traviati da compagni
oziosi dediti al furto nei campi.
Aggiunge
l'articolista che aggregandosi alla «classe degli operai» questa massa di
nuovi lavoratori abbraccia le idee del comunismo, «il quale pensa che la terra
sia comune e la proprietà un furto», ed in questa nuova condizione pensano
bene di prolificare «abbondantemente, senza darsi pensiero della prole», la
quale, a sua volta, viene allevata al furto.
Come
si vede, una figurazione ideologica e faziosa, fortemente significativa: essa
indica con quanta consapevolezza le classi padronali avvertissero il pericolo
nascente dal disgregarsi di un tessuto sociale che per secoli aveva garantito il
mantenimento dello status quo.
Lo
scontento delle campagne già si manifesta violentemente con l'introduzione
della tassa sul macinato (1869), con la quale i contadini si vedevano sottratta
dal mugnaio una quantità di grano che è stata calcolata pari alla quantità
necessaria al sostentamento di una famiglia mezzadrile per un mese.
E’
un colpo pesante per la già povera economia delle campagne.
In
queste condizioni, l'intera Romagna diviene un pericoloso centro di ribellione:
il costume del brigantaggio, che già ha fortemente preoccupato gli ultimi anni
del governo pontificio, ha un nuovo sussulto e sempre più numerosi si fanno gli
episodi di ribellione, dall’uccisione di funzionari governativi a veri e
propri tumulti.
Nasce
così nell'opinione pubblica nazionale l'idea che ancora segue i romagnoli,
quella di un'enclave meridionale nel
nord dell'Italia settentrionale.
Soprattutto,
nel Parlamento dello Stato sabaudo si impone la "questione Romagna",
che i più ritengono di poter risolvere inviando l'esercito.
Invano
Aurelio Saffi tenta di far comprendere che ingiustizie, miserie e disagi sociali
non si risolvono con le armi ma con le riforme: presìdi di fanti e cavalleggeri
si diffondono in Romagna, trattata come un territorio di occupazione.
Il
quadro descritto spiega il motivo per il quale si ebbe in Romagna un'ampia
adesione al Partito Repubblicano e all'Internazionale socialista, che alla fine
del secolo dette vita anche in Italia al Partito Socialista.
Nascono
le "cameracce" repubblicane e le "case del popolo"
socialiste e si formano le prime leghe contadine.
In
questo nuovo contesto, lo scontento e il ribellismo non hanno più modo di
esprimersi nelle forme primitive e immediate, tragiche nella loro solitudine,
del brigantaggio: trovano nel progetto di un nuovo mondo la loro sublimazione,
l'alveo di un'azione politica diretta.
E però, nella passione politica che agita le masse subalterne, ben si comprende il sopravvivere del mito del Passatore cortese, la cui figura lascia cadere la faccia del bandito sanguinario, per mantenere quella del ribelle: un mito di sinistra, così come più tardi, inesplicabilmente, tale mitizzazione si farà - nei romagnolisti in breccia, non di rado lodatori del tempo passato e conservatori dei "sacri" valori - un simbolo della Romagna.