La figura mistificata del Passatore

 

In un contesto siffatto, nel quale nasceva la stessa figurazione pascoliana, la leggenda del Robin Hood romagnolo si andò definendo tempestivamente, quando ancora il Passatore era vivo.

E come tutte le leggende apriva in primo luogo sulla stessa nascita, secondo il principio che un eroe non può avere che genitori grandi, sicché - come annotava Dante - occorreva sostituire ai genitori pastori di Romolo e Remo non solo una principessa, Rea Silvia, ma addirittura una divinità, in questo caso Marte, dio della guerra.

Per il Passatore, l'impegno dei favolisti, per quanto non si giungesse a tanto, fu tuttavia di particolare vigore.

Se non si pensò a una principessa ed a un dio, si inventò tuttavia una coppia che non era molto lontana da così alto lignaggio: si scomodò una contessa ed un papa.

Così, dopo non molto tempo la morte del Passatore, tale Antiodo Agnolucci pubblicò con i tipi di Salani un romanzo torrenziale per numero di pagine e per lussuria retorica, poi ridotto - per mano di Eugenio Rontini e per ordine dello stesso editore, deciso a far correre più agevolmente le vendite - ad un più snello, ma non meno immaginifico racconto.

In tale romanzo, madre del bandito è la contessa d'Alba, aerea fanciulla ch'ebbe a generarlo con la "collaborazione" del futuro Pio IX, prima che costui fosse ordinato sacerdote: sicché quel nobile signore della strada, adottato da un barcaiolo del Lamone, si trovò per tutta la vita costretto a sfuggire la caccia dei feroci gendarmi del padre.

E perché il romanzesco potesse tracimare oltre ogni decenza, e si potesse dare libero sfogo all'anticlericalismo - che aveva così grande parte nella tradizione dei romanzi popolari del tempo appartenenti alla scuola di Gian Domenico Guerrazzi (e dello stesso Garibaldi) - si inventarono sia Carmela, la fanciulla amata poi fattasi suora, sia un prete ferocemente in caccia del nostro eroe, il vicario don Frediano, corruttore e traditore.

Nella costruzione della leggenda, peraltro, occorreva rendere quanto più possibile “nobili" le ragioni che indussero il Passatore a scegliere infine la vita del brigante: non le cattive compagnie, né una nativa propensione alla violenza o la ferocia inesplicabile e improvvisa di un paranoico, bensì la prepotenza altrui, l'ingiustizia che si accanisce contro il buon giovane e lo spinge ineluttabilmente alla macchia.

Così, per Il nostro eroe, si inventarono una colpa d'amore, che sempre assicura comprensione, e anzi complicità, e la tenace ferocia di un prete, che così bene risponde alle necessità di una Romagna anticlericale.

Giuseppe Afflitti detto "il Lazzarino".

Stefano avrebbe dunque sedotto una giovinetta delle sue parti, che per sventura aveva come suo protettore don Antonio Morini, detto don Fiumana, arciprete della Pieve di Cesato.

E don Morini - il cui interessamento per la pecorella smarrita, dice la leggenda, era sollecitato assai più da ragioni inconfessabili che da spirito di carità - prese a minacciare il giovane seduttore perché, come la legge voleva, sposasse la fanciulla resa madre, o pagasse il debito in galera.

Per queste ragioni, il povero giovane - malfattore sì, ma malfattore d'amore, che è colpa lieve - finì in galera a Bagnacavallo, condannato a tre anni.

Ma poiché l'audacia gli era nativa, e così l'abilità e l'astuzia, il nostro eroe non tardò a fuggire dal carcere, gettandosi alla macchia, mosso ora da un ardente sete di vendetta: alla quale dette dopo non molto tempo ristoro, lasciando morto stecchito il prete maligno, mentre costui passeggiava per una strada di campagna prossima al suo villaggio, la sera del 23 dicembre 1850.

Dunque, quel che fece di Stefano Pelloni un masnadiero di sanguinaria ferocia sarebbe stata una gioiosa colpa d'amore, il nonnulla di un abbandono tra le stoppie ad una breve ora.

Sicché ben doveva morire il prete fedifrago e lussurioso, che con così maligna protervia aveva rovinato la vita di un giovane, spingendolo alla macchia.

Nella leggenda del Passatore, per vero, troviamo anche una più realistica versione delle sue origini banditesche, tale tuttavia da mantenergli la figura di giovane, scapestrato certamente, ma colpito da una giustizia che tra la colpa commessa e la pena inflitta inserisce una feroce divaricazione.

Per tale versione - nella quale si confonde tra la biografia del Pelloni e quella di un altro celebre brigante, Tommaso Montini il Teggione - le sventure del Passatore sarebbero iniziate sulla piazzetta di fronte alla chiesa di Pieve di Cesato, dove una lite scoppiata con un coetaneo, che era naturalmente il provocatore, si trasformò in una sassaiola e si concluse in un dramma: uno dei "proiettili" scagliati dal nostro eroe adolescente colpì una giovane sventurata sul sagrato della pieve, lasciandola stecchita.

Per tale omicidio colposo il giovane finì in carcere; poi l'evasione e l'ineluttabile vita di brigante alla macchia.

Dunque, in questa versione, non la volontà di un giovane malfattore che per sua lucida determinazione sceglie una vita di grassatore e di omicida, bensì uno sventurato incidente, una sassaiola di adolescente, un lanciar sassi che è proprio dell'infanzia, e persino del Carducci di Davanti San Guido.

La presenza angosciante dei briganti trova testimonianza nel significativo numero di "ex-voto" presenti nella Basilica del Monte di Cesena, a ringraziamento della positiva conclusione di agguati briganteschi.

Sicché la cecità della legge avrebbe armato la mano del Passatore e aperto la sorgeva che nella Romagna di metà Ottocento avrebbe originato un fiume di sangue.

Anche così, pur con una morte agli inizi della sua feroce carriera, si garantiva a Stefano Pelloni un'origine "innocente" e si poteva dare alimento alla sua leggenda cortese.  

La leggenda, infine, non ignora le romanticherie di amori "nobili", di relazioni con dame della nobiltà.

Ma l'incolto bracciante di Boncellino - per quanto possa essere accaduto che una qualche damina, malata di scadente romanticismo, abbia potuto nutrire una qualche segreta passione per il malandrino sanguinario - si sarebbe trovato alquanto fuor di posto in un rapporto del genere.

Da rozzo e gagliardo figlio della campagna, andava per le spicce, distribuendo il suo giovanile ardore dove gli capitava e nei momenti più impensati, come quando, nel bel mezzo del sacco di Forlimpopoli, sbollì le voglie su di una serva di locanda non certo in odore di verginità.

Altre femmine le ebbe nei postriboli di paese e in certe case frequentate dai briganti, fra le quali quella dal nome significativo "delle donne", dove compiacenti ruffiani combinavano incontri "romantici" tra grassatori carichi di scudi e mercenarie di provincia.

A Boncellino frequentava una tanghera nota come La Rivalona, un nome che par quasi un manifesto, per quel tanto che evoca di villici amplessi tra le stoppie del Lamone.

E del resto era questa una situazione normale per tanti giovani di campagna braccati dalla legge, e perciò evitati dalle fiorenti ragazze da marito, che allora si concedevano solo se avevano la certezza di essere condotte all'altare.

Nella leggenda del Passatore non poteva mancare la mistificazione "politica", cui dette alimento lo stesso Garibaldi, che in una sua lettera dall'esilio negli Stati Uniti, datata 10 dicembre 1850, ebbe la sventura di ricordare il Pelloni come un "bravo italiano":

Le notizie del Passatore sono stupende... pare fare prodigi.

Noi baceremmo il piede di questo bravo italiano che non paventa, in questi tempi di generale paura, di sfidare i dominatori.

Dimenticando che l'attività della banda non conobbe tregua nemmeno nel periodo del triumvirato Mazzini-Saffi-Armellini e della Repubblica Romana (il leggendare ha sempre bisogno di clamorose amnesie), si caricarono le imprese brigantesche del Pelloni non solo delle idealità del grassatore che spogliava i ricchi per dare ai poveri, ma anche di più dirette, consapevoli e men generiche ragioni politiche, facendone un ribelle allo Stato della Chiesa e anzi giungendo a considerarlo un protagonista dell'epica marcia di Garibaldi, in fuga attraverso gli Appennini per raggiungere Venezia assediata: una marcia che il Pelloni avrebbe accompagnato e favorito, eletto dai mitografi a patriota di complemento.

Esemplare, da questo punto di vista, il romanzo Il Passatore, scritto all'aprirsi del Novecento dal ravennate Bruno Corra, ancor oggi pubblicato da Garzanti.

Una mistificazione siffatta è ben comprensibile: rientra nell'usuale lettura per la quale tutto ciò che si oppone all'autorità costituita, compresa l'impresa brigantesca sta dalla parte nobile ed eroica della rivoluzione.

Tale dimensione, in realtà, era del tutto ignota all'illetterato Stuvanè, che nemmeno per un istante - per educazione ricevuta e per il suo stesso ambiente di vita - poteva immaginarsi l'anima del giustiziere, del difensore dei deboli, del ribelle che sogna un mondo nuovo.

Egli agì sempre nella torva determinazione del suo interesse personale, e se tra i contadini - quelli che gli assicuravano ospitalità, coprivano le sue fughe, davano indicazioni e informazioni alla sua banda - corse un fiume di denaro, ciò fu non per restituire al poveri quanto era stato loro sottratto dalle ingiustizie sociali , ma sempre e unicamente per mantenere attiva la rete davvero straordinaria delle sue coperture e delle sue complicità.

Confessò la sorella Lauretana, che più di ogni altro è testimone attendibile: «Non ha mai dato niente a nessuno: se dava qualcosa lo faceva perché aveva bisogno di complicità o altro».

Un eroe di stampo antico, il nobile e l'oppresso, il patriota e il vendicatore, la primula rossa temeraria e romantica non sono in sostanza che una mistificazione senza fondamento: i purissimi ideali di giustizia e le parole di un nobile sentire, che romanzieri e mitografi gli attribuirono, dimenticano che Stefano Pelloni era un contadino di Boncellino, che la sua lingua era solo e unicamente l'aspro e duro dialetto romagnolo, che il suo mondo culturale non era più ampio degli scudi e degli ori delle sue rapine, del sangue spesso versato per pura ferocia, della morte data non di rado con sadismo, l'unico tra i briganti dell'intero Ottocento - come ha sottolineato Leonida Costa - che giungeva a sezionare le sue vittime, abbandonando per la via i resti del suo macello.

Per questo, la Romagna che se ne fregia come di un suo figlio esemplare e ne empie le strade con la mistificante immagine di brigante calabrese (compreso il trombone, un'arma che il Pelloni non usò mai), è una Romagna stretta alle dimensioni del mito, che solo può comprendersi se, spogliato il Passatore di tutti i minuti elementi della sua tragica esistenza, non resta che il simulacro e il fantasma del ribelle, così caro a una terra di aspre e incorrotte passioni politiche, quella che tra Otto e Novecento, nel grande quadro delle lotte contadine e bracciantili, si fece madre feconda di passione civile, dando un contributo vigoroso al formarsi dei partiti dell'Italia del Novecento.

Lauretana Pelloni, sorella del Passatore.
Non diversa immagine di sé doveva dare, sul finire della sua vita, la sventurata Francesca Errani, madre del brigante. 

In questo ambiente si ebbe la dissociazione tra storia e mito, e il mito ebbe la meglio sulla storia, per la buona ragione che si fa ovunque dominante - e tanto più tra le angherie e le miserie - il bisogno dell'eroe positivo, nella cui identificazione e nella cui luce si può continuare a sperare nella possibilità del riscatto, nella sconfitta dei padroni del mondo.

La rottura tra storia e mito, cui hanno dato energiche spallate le indagini di Leonida Costa, ha trovato un intrigante luogo di confronto e di discussione nel processo a carico di Stefano Pelloni, che - per iniziativa del Centro Culturale di Ravenna e del suo animatore Walter della Monica - è stato celebrato il 18 e 19 giugno 1993 al teatro Astoria di quella città.

In quella occasione, l'accusa - sostenuta da Piero Casadei Monti, consigliere di Cassazione - sostenne la tesi della pura criminalità del Pelloni: il brigante agì nella totale assenza di ideali, di rivendicazioni sociali, di slanci pre-risorgimentali: un giudizio che la giuria raccolse nelle conclusioni del processo, collocando il Passatore «in un'ottica esclusivamente individuale, egoistica e criminale, in funzione dell'avidità di denaro e del vivere senza lavorare».

Ma già l'accusatore riconosceva la forza del mito, sottolineandone la funzione consolatoria «nell'attesa di una crescita politica e sociale».

Sicché lo scrittore Massimo Dursi poteva sostenere: «Moriva col Passatore un'illusione, scompariva il campione di una rivolta sbandata sì nell'equivoco e nel delitto, ma - si intuiva - per una condizione disperata e non per trista vocazione»: un richiamo ai contesti politici e sociali sui quali si era intrattenuto il criminologo Augusto Balloni, sottolineando le condizioni di disagio, di abbandono, di inerzia amministrativa della Romagna pontificia, nella quale quasi il 20% della popolazione sopravviveva grazie all'accattonaggio: una condizione generatrice di «un ribellismo di tipo risentito, canagliesco».

La difesa - sostenuta da Gianni Morelli - faceva tesoro di questi rilievi, che la giuria accolse infine sottolineando che le azioni del Passatore, pur prive di motivazioni libertarie e politiche, furono generate «dal terribile contesto economico e sociale».

Ma nella sua appassionata difesa del brigante, il Morelli andò oltre, collegando l'eroe di Boncellino alle vicende che dettero vita al carattere libertario dei romagnoli ottocenteschi e alle loro lotte contro la povertà e l'ingiustizia sociale: insomma, un Pelloni ribelle politico, detonatore di una Romagna povera, inquieta, violenta e malgovemata, e perciò, a suo modo, uno dei protagonisti di quella guerra di liberazione che chiamiamo Risorgimento: «un frutto aspro, acerbo, ma pur sempre un frutto della Romagna».

Non a caso, efficacemente, il Morelli costruiva la diade oppositiva tra il proletario Apollinare Fantini, servo del regime pontificio e uccisore del Passatore, e il proletario ribelle Stefano Pelloni: «nello scacchiere della crisi ognuno occupa il proprio posto: Apollinare Fantini, volontario pontificio; Monsignor Bedini, cardinale persecutore; e Pelloni ha scelto di stare dall'altra parte.

Pelloni, figlio della Romagna, nostro fratello».

Come si vede, la dissociazione mito-storia è ancor oggi energicamente attiva.

Per tale energia il processo di Ravenna si concludeva infine, quanto meno implicitamente, nel riconoscere con Augusto Balioni che il mito ha una vita autonoma rispetto alla storia e va perciò guardato con un'ottica diversa: lo Stefano Pelloni che lasciò una scia di sangue nella sua vita "storica" non ha nulla a che vedere con l'altra straordinaria figura del mito, con quel re della strada e re della foresta che alimentò la speranza del riscatto e signoreggiò nel fuoco delle lotte sociali, ripensato come una luce dagli oppressi: sicché, nell'Ottocento e oltre, non soltanto fiorirono centinaia di romanzi, opere di teatro, spettacoli per burattini, romanze popolari sull'eroe di Boncellino, ma anche poteva accadere che l'avola favolatrice si chinasse sulle culle dei bimbi per cantare la Cantlèna dla morta de Pasador.

Il brigante di strada era diventato - come Fra Diavolo, come Robin Hood, come Musolino, come Billy the Kid... - l'eroe dei poveri, la voce della incorrotta speranza di un vindice riscatto.

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