La Piada di Giovanni Pascoli
I |
Il vento come un mostro ebbro mugliare udii notturno. |
Errava non veduto tra i monti, e poi s'urtava al casolare |
piccolo, ed in un lungo ululo acuto fuggiva ai boschi, |
e poi tornava ancora più ebbro, coi suoi gridi aspri di muto. |
L'udii tutta la notte, ed all'aurora, non più. Dormii. |
Sognai, su la mattina, che la pace scendeva a chi lavora. |
Or vedo: scende. Scende: era divina l'anima. |
Il cielo tutto a terra cade col bianco polverio della rovina. |
Non un'orma. Vanite anche le strade. |
La terra è tutto un sol mare e onde bianche, di porche ov'erano le biade. |
Resta il mio casolare unico, donde esploro in vano. Non c'è più nessuno. |
E solo a me che chiamo, ecco risponde il pigolio d'un passero digiuno. |
II |
Sul liscio faggio danzi corra voli, Maria, lo staccio! e trpicchi giocondo, |
vaporando il suo bianco alito fino, che si depone sul tuo capo biondo. |
O lieve staccio, io t'amo. Il tuo destino somiglia al mio: |
tener la crusca; il fiore, spargerlo puro per il tuo cammino. |
E fai codesto con un tuo rumore lieto, in cadenza: |
semplice ma bello per l'orecchio del pio lavoratore. |
Ma triste, sotto mezzodì, per quello del viandante, |
che rasenta i triti limitari del lungo paesello: |
ch'ode un danzar segreto, ode tra i diti di donna sola, in ogni casa, |
andare te, casalingo cembalo, che inviti lo sciame errante al tacito alveare. |
III |
Taci, querulo passero: t'invito. Sempre diventa il tuo gridìo più fioco: |
taci: or ora imbandisco il mio convito. |
Il poco è molto a chi non ha che il poco: |
io sull'arola pongo, oltre i sarmenti, i gambi del granoturco, abili al fuoco. |
Io li riposi già per ciò. Ma lenti sono alla fiamma: |
e i canapugli spargo che la maciulla gramolò tra i denti. |
Nulla gettai di quello che non largo mi rese il campo: |
la mia man raccoglie anche i fuscelli per il mio letargo. |
Serbo per il mio verno anche le foglie aride. |
Del granturco, ecco via via mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie. |
Ciò che secca e che cade e che s'oblia, io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore si stacca triste |
e che poi fa che sia morbido il sonno, il giorno che si muore. |
IV |
Il mio povero mucchio arde e già brilla: |
pian piano appoggio su due mattoni il nero testo di porosa argilla. |
Maria, nel fiore infondi l'acqua e poni il sale; dono di te, Dio; |
ma pensa! l'uomo mi vende ciò che tu ci doni. |
Tu n'empi i mari, e l'uomo lo dispensa nella bilancia tremula: |
le ande tu ne condisci, e manca sulla mensa. |
Ma tu, Maria, con le tue mani blande domi la pasta e poi l'allarghi e spiani; |
ed ecco è liscia come un foglio, e grande come la luna; |
e sulle aperte mani tu me l'arrechi, |
e me l'adagi molle sul testo caldo, e quindi t'allontani. |
Io, la giro, e le attizzo con le molle il fuoco sotto, |
fin che stride invasa dal calor mite, e si rigonfia in bolle: |
e l'odore del pane empie la casa. |
V |
Chi picchia all'uscio? Tu forse, Aasvero, |
che ancora cammini per la terra vana, arida foglia per un cimitero? |
Chi picchia all'uscio? ...E fioca una campana suona... Chi suona? |
Forse un vecchio prete, restato a guardia della tomba umana? |
E' solo; e ancora mezzodì ripete l'Angelus, |
ed a rincasare invita, morti, voi, che sottoterra ora mietete. |
Socchiudo l'uscio. Antica ombra smarrita, che in cerca erri del corpo; |
ultima foglia, che stridi ancora dove fu la vita; |
quel vento t'ha portato alla mia soglia, vecchio ramingo, |
ultima foglia morta d'albero immenso che non più germoglia? |
Ma tu sei vivo: hai fame! E qui ti porta necessità. Sei vivo: soffri! |
Vivo sei: piangi! Ed ecco, dunque, apro la porta: |
entra fratello, che ancor io ...si, vivo. |
VI |
Entra, vegliardo, antico ospite: ed ecco l'azimo antico degli eroi, |
che cupi sedeano all'ombra della nave in secco |
(si levarono grandi sulle rupi l'aquile; |
e nella macchia era tra i rovi un inquieto guaiolar di lupi...): |
il pane della povertà, che trovi tu, reduce aratore, esca veloce, |
che sol s'intrise all'apparir dei bovi: |
il pane dell'umanità, che cuoce in mezzo a tutti, sopra l'ara, |
e intorno poi si partisce in forma della croce: |
il pane della libertà, che il forno sdegna venale; |
cui partisci, o padre, tu, nelle più soavi ore del giorno: |
ognuno in cerchio mangia le sue quadre; più, i più grandi, |
e assai forse nessuno; forse n'ebbe più che assai la madre, |
cui n'avanza per darne un pò per uno. |
VII |
Azimo santo e povero dei mesti agricoltori, |
il pane del passaggio tu sei, che s'accompagna all'erbe agresti; |
il pane, che, verrà tempo e nel raggio del cielo, sulla terra alma, |
gli umani lavoreranno nel calendimaggio. |
Che porranno quel di sugli altipiani le tende, |
e nel comune attendamento l'arte ognun ciberà delle sue mani. |
Ecco il gran fuoco, che s'accende al vento di primavera. |
ma in disparte, gravi, sulla palma le bianche onde del mento, |
parlano i vecchi di non sò che schiavi d'altri e di sè: |
ma sembrano parole sepolte, dei lontani avi degli avi. |
Guardano poi la prole della prole seder concorde, |
e, con le donne loro e i loro figli, in terra sotto il sole, |
frangere in pace il pane del lavoro. |